1 Dicembre 2024
Provare ad entrare nella complessità del pensiero e della vita di Sigmund Freud sarebbe davvero arduo, più semplice, invece, anche se non troppo, è provare a comprendere il messaggio de “L’ultima seduta”, nientedimeno che con Clive Staples Lewis, non nelle vesti di paziente, ma di interlocutore alla pari, anche se di pensiero opposto.
È proprio il coinvolgimento di Lewis, a nostro modo di vedere, la trovata più geniale di questo racconto che, a scanso di equivoci, viene messo in discussione nei titoli finali, riconoscendo che non ci sono prove che l’interlocuzione sia avvenuta tra loro due.
Bisognava trovare un testimone autorevole che tenesse testa a Freud, in un confronto sull’argomento più discusso della storia: l’esistenza di Dio. Quale figura migliore di colui che nel 1939, anno della morte del padre della psicanalisi, iniziava ad animare i suoi miti attraverso Le cronache di Narnia, ma, soprattutto, quale testimonianza più autorevole di chi, in quegli anni, si imponeva nel mondo della letteratura, raccontando la sua conversione attraverso Le due vie del pellegrino.
In effetti, per entrare nel merito del film di Matthew Brown e comprende meglio lo spessore dei dialoghi, oltre ad avere un’idea su chi è Freud, bisogna capire chi è il suo interlocutore, forse meno noto alla massa, e conoscere, almeno a grandi linee, la sua esperienza.
Lasciamo al lettore o allo spettatore del film il compito di entrare nel merito dell’opera di Lewis e limitiamoci a dire che, tra studenti e letterati, è noto come uno dei principali autori del ‘900 che ha affrontato la questione di Dio, in termini esperienziali, ontologici ed esistenziali.
Freud, invece, lo conosciamo tutti (si fa per dire). In rappresentanza della posizione agnostica, lascia trasparire, nei dialoghi del film, una forma aggressiva di ateismo pratico, non molto originale nelle argomentazioni rispetto a quanto non si dice da sempre circa il male nel mondo, ma soprattutto limitata a confronto con l’originalità di un pensiero articolato che apprendiamo dai suoi scritti. In altri termini, il film poteva dare qualcosa in più nei dialoghi, a maggior ragione che il non verbale della narrazione è portatore di significati che non si colgono a volo.
Meglio, forse, conosciamo Anthony Hopkins, interprete convincente di un ormai anziano ricercatore, nominato nel quartiere con l’appellativo di ‘dottor Sesso’, messo alla prova da un tumore alla mandibola e che, ormai prossimo alla morte, manifesta la sua rabbia nei confronti di chi, per lui, non esiste.
La storia che viene raccontata, come solo il cinema sa fare, riesce con poco a toccare tutti gli aspetti contestuali, dimostrando, probabilmente, che il punto di partenza è lo stesso, la sofferenza del mondo; il punto di arrivo è diverso, la rappresentazione interiore dell’assente presenza di Dio.
Sia Sigmund che Clive, infatti, portano in scena gli aspetti drammatici della loro esperienza, dall’infanzia alla vita adulta, passando attraverso la sofferenza, entrambi senza uscirne indenni.
La contraddizione, solo apparente, emerge fin dalle prime battute, quando Freud apre il racconto affermando di voler essere ancora una volta un profeta e di essere ancora in ricerca poiché “un indizio più sicuro di sanità mentale sarebbe la capacità di cambiare idea”.
Il principale ispiratore della psicanalisi moderna, tutto sommato, non si allontana da chi ha voluto prendere le distanze successivamente, ed è consapevole che “cerchiamo con tutte le forze di cancellare i ricordi dell’infanzia, ma questi rifiutano di andare via”. È questa, secondo noi, una prima chiave di lettura per cogliere la proposta della figlia Anna, ma soprattutto, la rabbia repressa proprio quando si tratta di negare Dio.
E, così, il grande Freud, dopo aver trascorso la vita a cercare di interpretare i sogni, capisce che è arrivato il momento di concentrarsi sulla conoscenza della realtà, rappresentata e non smentita dal mito che ispira la rappresentazione simbolica dell’esperienza onirica. Forse è troppo tardi o, forse, farà giusto in tempo, questo non c’è dato di saperlo, perché anche il gesto più eclatante della disperazione può essere giudicato solo scendendo nel profondo di quel luogo che lui chiamò inconscio e che nasconde ciò che per Sigmund è certezza morale: la bestia. La conferma di ciò nel “bestiario della sessualità”, ossia la Bibbia.
La risposta arriva precisa da Lewis, impegnato, come tutti, nella ricerca del giusto sentiero che, percorrendo la selva oscura, ad un certo punto, lascia intravedere una luce e, così, si prende atto che è da egoisti mettere il dolore al di sopra di tutto, nonostante si resti codardi difronte alla morte.
A. G.