Accogliamo la sfida!

L’esorcista del Papa?

30 aprile 2023

di Alessandro Grimaldi –

 

Chi non conosce padre Gabriele Amorth?

Alla retorica di questa domanda sembra dare conferma L’esorcista del papa, film per il cinema, tanto atteso quanto incompreso dalla critica. L’ironia è d’obbligo poiché padre Amorth è il classico personaggio che, soprattutto tra cattolici, tutti sanno chi è, ma in pochissimi conoscono la sua vita.

Per comprendere l’opera di Julius Avery e provare a trarre qualcosa di buono in termini educativi, bisogna fare una premessa: il film non parla della storia dell’esorcista più famoso, ma delle ‘sue’ idee sul male e sul mondo degli esorcismi.

La narrazione sembra orientata in tale direzione e, anche se non si trova nessuna corrispondenza con i fatti reali, l’insegnamento che emerge è in linea con il pensiero di padre Gabriele (e della Chiesa), in tante occasioni espresso e facilmente reperibile, non solo nei suoi libri, ma anche attraverso tanti video presenti in rete.

Il dialogo tra scienza e fede

Il punto di partenza dell’esorcista è quello giusto, tante volte condiviso nei contesti formativi, ma purtroppo non compreso soprattutto dai ‘fedeli’: il 98% delle persone che ritengono di essere possedute, in realtà vivono al confine tra nevrosi e psicosi. Il protagonista del film ci tiene a sottolineare che non accoglie persone che prima non abbiano ascoltato un parere medico. Ci siamo! È la giusta prassi, suggerita dalla Chiesa, auspicata nell’introduzione al rito per gli esorcismi, fin dai primi dialoghi sottolineata e confermata dalla scena che vede il papa consultare una documentazione dove, in primo piano, sono evidenti i risultati di esami clinici.

A tal proposito, abbiamo trovato molto interessante il confronto con il ‘plotone d’esecuzione’ organizzato in Vaticano per giudicare l’operato del sacerdote. Accusato di aver svolto un esorcismo senza il permesso del vescovo locale, il protagonista si difende affermando di non aver proceduto con il rito, poiché non ce n’era bisogno, ma di averlo fatto credere per far leva sulla suggestione.

Più avanti, padre Gabriele, rimuginando qualche presunto errore del passato, confesserà al giovane sacerdote di essere sfociato in competenze che non gli appartenevano, lui che non essendo psicologo doveva limitarsi a compiere la sua parte.

Atteggiamento sicuramente maturo, questo, rispetto  agli estremismi di qualche ‘sacerdote moderno’ che, invocando il principio dell’autodeterminazione, predica che il diavolo non esiste e si affida esclusivamente alla psichiatria. Sembrerebbe un’esasperazione, ma tale preoccupazione davvero è emersa dagli ultimi pontefici, al punto tale da ribadire, in più occasioni, la necessità di educare su questi aspetti.

La prospettiva di fede: quel 2% che fa paura

In risposta al ‘negazionismo’, la proiezione apre con un primo insegnamento di Amorth, che negli anni è risuonato negli ambienti cattolici: “il più grande inganno che il diavolo abbia mai fatto è stato quello di convincere il mondo che non esiste”.

Se è vero che la stragrande maggioranza dei casi non contempla un intervento diretto dei diavoli, la Chiesa cattolica crede che ciò sia possibile, padre Gabriele ne è pienamente convinto e, quindi, dopo una prima breve raccolta di informazioni, supera lo scetticismo e procede con l’esorcismo.

All’interrogativo su quali sono i segni che confermerebbero una possessione, la sceneggiatura, utilizzando tutti i codici del cinema, pone una risposta da manuale: avversione al sacro, parlare altre lingue, forza sovraumana.

Come anche appare chiaro che questo tipo di male si combatte alimentando la vita di fede. La preghiera della comunità cristiana, fortemente ricercata da padre Gabriele ogni qualvolta si appresta ad operare,  ma soprattutto la grazia sacramentale, trasmessa tramite il sacramento della confessione e necessaria per bloccare i tentativi di manipolazione del diavolo. Perché anche questo aspetto, raccontato nel film, non entra in conflitto con la teologia cattolica. Ciò che ci fa male è, spesso, nella testa e i demoni approfittano, facendo leva sul rimorso per i peccati compiuti.

Il segreto – secondo padre Amorth – rivelato in più passaggi, è quello di chiamare per nome i propri nemici, perché quando scoperti, questi si indeboliscono ed è più facile combatterli e sconfiggerli. Vale negli esorcismi, come pure nella rilettura della storia e della propria esperienza personale. Suggestivo, infatti, appare il riferimento al nazismo come ‘luogo’ dell’incontro tra la capacità dell’uomo di compiere il male e la possibilità dell’intervento di satana nelle vicende umane.

Il demone che possiede Henry (il ragazzo preso dal diavolo) si rivelerà essere Asmodeo. Il più famoso dei diavoli che, in una tradizione segnata da una forte condanna di tutto ciò che è legato ai disordini sessuali, sembra essere anche il più impegnato. Le tentazioni, infatti, ci sono, coinvolgono anche i giovani sacerdoti, il diavolo lo sa ed è pronto a rinfacciarle, manipolando la realtà e rendendola ingannevole. Padre Gabriele lo intuisce, ma intanto Asmodeo vuole entrare in Vaticano e, forse, ci riesce.

Il linguaggio del cinema

Bisogna fare scena, Hollywood lo sa e con L’esorcista del papa non si risparmia, sfociando nella banalità estrema, al punto tale da rendere indigeribile una frittata preparata sbagliando tutte le dosi degli ingredienti che, di solito si usano in un genere dichiaratamente horror.

Soprattutto nella seconda parte, si è voluto strafare con gli effetti speciali, che nulla hanno a che vedere con una possibile comunicazione amplificata, potenzialmente giustificata dalla trasmutazione intersemiotica dell’evento raccontato.

Siamo d’accordo che la complessità e il fascino di una pellicola siano nell’intreccio dei generi, ma qui la narrazione pecca di ingenua creatività, trasformando una buona intenzione in scene che rasentano il trash.

L’uso eccessivo, imbarazzante a tratti ridicolo del jumpcare, per nulla inatteso, tanto da trasformarsi più in un salto di ridicola mediocrità che di paura, ha strappato un sorriso allo spettatore ormai preparato ai numerosi omaggi ai cult di genere.

Una nota di merito la spezziamo a favore del cast. La performance di Russell Crowe, di indubbio spessore, permette di sorvolare sulle esasperazioni della regia, incarnando un modo di essere prete verosimile. Non può dispiacerci la presenza di Franco Nero, motivo d’orgoglio per noi, nei panni di un papa che, però, essendo calato in un momento storico preciso, non ricorda Giovanni Paolo II, non solo nell’aspetto, ma soprattutto nello stile. Vero protagonista l’undicenne Peter De Souza-Feighoney, interprete di Henry, il bambino posseduto che, reso poco credibile dalla regia, è stato comunque in grado di trasmettere al telespettatore quel tocco di verosimile innocenza proprio di un ragazzino apparentemente ribelle perché fortemente traumatizzato.

E così, se si aveva la sana intenzione di andare a vivere un’esperienza da brividi, in effetti, accade il contrario e si esce dalla sala sorridendo, dopo aver scaricato la tensione proprio grazie al crescendo di scene surreali che, forse, avevano anche l’intenzione di attirare il consenso degli amanti dei finali con effetti speciali, ma, a questo punto, andavano calibrati meglio.

Dell’opera si salvano i dialoghi e ci piace immaginare che sia questa l’intenzione autoriale: intrecciare il pensiero di padre Gabriele Amort sul male, con la rappresentazione ormai scontata dell’immaginario collettivo su possessioni ed esorcismi.

 

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