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Pena di morte e diritto ad uccidere per amore del prossimo

24 novembre 2019

Continuiamo, come nel nostro stile, ad esprimere un parere su questioni di attualità, osservate da una prospettiva precisa: l’interpretazione dei media. Ancora una volta il mondo della comunicazione si confronta con l’opera di Francesco e, forse complice l’ennesima velina assunta come unica fonte, annuncia la presunta novità: “il papa cambia il catechismo”. È questo il lancio della notizia per numerose testate giornalistiche.

V comandamento: non uccidere

Andiamo per ordine e vediamo cosa è accaduto.  L’11 maggio 2018, il Santo Padre riceve in udienza il prefetto per la Congregazione per la dottrina della fede, Luis F. card. Ladaria. In tale sede approva le modifiche al n. 2267 del Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC), riguardante la pena di morte.

Fino all’altro giorno, infatti, la Chiesa non escludeva “il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di esseri umani”.

La pena di morte non era, in linea teorica, sempre rifiutata, ma, nella pratica, era stata già debellata, poiché si consideravano “inesistenti i casi di assoluta necessità di soppressione del reo”. Si noti, infatti, che il discorso è inserito nella sezione del CCC riguardante i dieci comandamenti e, in particolare il quinto: non uccidere.

Il braccio della morte

Un’osservazione ci sembra superflua quanto banale, ma la proponiamo lo stesso. È chiaro che se il potere costituito è in grado di infliggere la pena di morte a seguito di condanna, vuol dire che il condannato è sotto la propria custodia, in carcere e quindi, già messo in condizione di non nuocere.

Diversamente, si può verificare la situazione che uno Stato, attraverso la funzione del potere giudiziario, in seguito ad un regolare processo, può emettere sentenza di morte anche quando l’imputato si è reso irrintracciabile e, quindi, risulta latitante. In questo caso, nessun ordinamento prevede che il criminale debba essere ucciso a vista, per strada, sparato come un animale in una battuta di caccia. È chiaro che dovrà essere prima catturato e poi inserito in quel circuito che comunemente viene chiamato “braccio della morte”. A questo punto, però, se questi viene rintracciato, arrestato e condotto in carcere, ancora una volta verrà a mancare la necessità concreta di ammazzarlo in nome della sicurezza, poiché sarà isolato dalla società.

La pena di morte è inammissibile

Ad ogni modo, l’intervento del papa è stato opportuno, proprio per evitare facili strumentalizzazioni da parte di autorevoli e “civilissimi” Stati che non vogliono liberarsi della pena di morte. Con la modifica i termini diventano più chiari e tolgono dall’imbarazzo: “la Chiesa insegna, alla luce del Vangelo, che la pena di morte è inammissibile perché attenta all’inviolabilità e dignità della persona, e si impegna con determinazione per la sua abolizione in tutto il mondo.”

La legittima difesa

A questo punto, però, lungi da noi l’intenzione di voler giustificare l’omicidio, con la solita intenzione educativa che ci contraddistingue, prendiamo spunto dalla “vecchia” versione del n. 2267 del CCC per introdurre un altro concetto affine, che probabilmente, tra le righe, quello scritto richiamava nella sua bontà etica: la legittima difesa.

Il richiamo, in effetti, è più che implicito poiché, andando a vedere, ci si rende conto che il n. 2267 dedicato alla pena di morte, in realtà è inserito a conclusione del paragrafo dedicato alla legittima difesa (CCC 2263-2267).

Altro argomento scottante, di forte attualità rispetto alle prese di posizione del mondo politico circa la difesa personale e il possibile accesso semplificato alle armi. Insegnamento che, a nostro modo di vedere, andrebbe recuperato non per giustificare determinate esternazioni pubbliche, ma per indirizzare la discussione verso più nobili principi.

Il CCC, a tal proposito, ribadisce che “è legittimo far rispettare il proprio diritto alla vita.  Chi difende – infatti – la propria vita non si rende colpevole di omicidio anche se è costretto a infliggere al suo aggressore un colpo mortale” (n. 2264).

Diritto alla vita

Le modalità di difesa della propria vita, naturalmente, devono essere proporzionate al pericolo. Il CCC, citando San Tommaso d’Aquino, esprime il concetto in questi termini: “Se uno nel difendere la propria vita usa maggior violenza del necessario, il suo atto è illecito. Se invece reagisce con moderazione, allora la difesa è lecita” (n. 2264).

Se, per esempio, in un tentativo di rapina, è in pericolo un  bene personale o la propria proprietà privata, appare sproporzionato, e quindi illecito, l’uccisione dell’aggressore. La sua morte è giustificata come extrema ratio solo lì dove fosse minacciata la propria vita e non un personale bene materiale.

Poniamo in evidenza come, però, la propria difesa personale, nelle giuste circostanze spinta fino alla morte dell’aggressore, per la Chiesa è un diritto e non un dovere. La differenza è chiara, ma vale la pena ribadirla. Ogni persona portatrice di diritti, può, in piena libertà, decidere se avvalersene o meno, senza alcuna costrizione; il dovere, invece, implica un obbligo di ottemperanza che, se fosse evaso, comporterebbe un atto illecito più o meno grave.

Grave dovere difendere il prossimo

Ciò che risulta molto interessante sul piano dottrinale, sono le circostanze che convertono la legittima difesa da diritto a dovere, ossia quando ad essere in pericolo non è la propria vita, ma quella altrui. Il CCC così si esprime: “La legittima difesa, oltre che un diritto, può essere anche un grave dovere, per chi è responsabile della vita di altri” (n. 2265).

Difendere la propria vita è un diritto, proteggere quella del prossimo è un dovere. Un inciso, però, rende la questione apparentemente più complicata, ponendo un interrogativo: chi è responsabile della vita degli altri? Il CCC sembra circoscrivere la categoria al potere costituito. Il discorso, infatti, così continua: “A questo titolo, i legittimi detentori dell’autorità hanno il diritto di usare anche le armi per respingere gli aggressori della comunità civile affidata alla loro responsabilità”.

L’ordine politico e la minaccia sociale

L’indicazione si riferisce alla “comunità civile”, estendendo il concetto a più complesse questioni che possono contemplare una minaccia sociale. Si pensi, ad esempio, allo Stato italiano che, basandosi sui valori che stiamo approfondendo, contempla la difesa del proprio Paese e di ogni suo cittadino, ma anche di quelle popolazioni che, a livello internazionale, subiscono ingiuste aggressioni esterne.

Anche in questo caso, però, l’azione deve essere di difesa e non offensiva. “L’Italia – si legge nell’art. 11 della Costituzione – ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.

La propria vita per la salvezza del prossimo

Ma tornando all’agire personale di ognuno di noi, è evangelicamente fondata l’affermazione che responsabili della vita degli altri lo siamo un po’ tutti, ognuno secondo le circostanze e le proprie possibilità. Resta un diritto, quindi, difendere la mia vita, ma diventa un dovere per me proteggere il prossimo, qualunque sia la mia professione, soprattutto qualora mi imbattessi in una situazione di imminente pericolo di vita per qualcuno ed io mi trovassi nella condizione giusta per poterla fermare.

Estremizzando ancora di più il discorso, la difesa del prossimo, non solo, sempre nelle giuste circostanze, giustificherebbe l’uccisione dell’aggressore, ma, addirittura, potrebbe prevedere l’offerta della propria vita per la salvezza dell’altro. Si pensi a chi fa scudo con il suo corpo per difendere una persona o si offre come “merce di scambio” (es. Salvo D’Acquisto, Massimiliano Kolbe, etc.).

Ancora una volta, rispetto alla legittima difesa, il motore che muove la riflessione e indirizza l’agire è intrinseco alla capacità, possibilità e volontà di amare il prossimo. L’intenzione primaria non può mai essere quella di sopprimere la vita, ma piuttosto di salvarla. L’uccisione dell’aggressore diventa, allora, l’effetto secondario e inevitabile di un’azione mossa da un istinto sentimentalmente radicato nel cuore dei giusti.

 

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