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The penitent processa tutti e viene condannato

30 Maggio 2024

di Alessandro Grimaldi –

 

Un ragazzo compie una strage in una scuola ammazzando otto studenti e il suo terapeuta, profondamente credente, subisce un processo mediatico-giudiziario, accusato di non voler difendere il suo paziente perché gay.

Questa la trama di The penitent, un dramma teatrale di David Mamet, scritto nel 2016, tradotto nel 2023 in linguaggio audiovisivo da Luca Barbareschi, che ha firmato la regia e ricoperto il ruolo del protagonista.

Un processo al sistema sociale odierno che comprende questioni “sensibili” che trasversalmente attraversano i media, il sistema giudiziario, la scienza, la fede, la religione, la coscienza.

Un giudizio al contrario, in una storia a senso unico che, vista dalla prospettiva esterna dello spettatore, non condanna il peccato o i peccatori, ma il sistema nel suo insieme, dove tutti sono vittime.

Si parte con il processo alla stampa, ai giornali che si comprano ancora, ma non si leggono; ai giornalisti, “sacerdoti della comunicazione”, ai quali “piace aggiungere un po’ di pepe”; all’algoritmo che “non funziona se la notizia è troppo vecchia”; alla necessità di “trovare un nuovo cattivo” per mantenere alta l’attenzione.  

Si passa al sistema giudiziario americano che, come se non lo sapessimo, fa acqua da tutte le parti, quando, per esempio, prevede dei testimoni a pagamento; un’audizione con il pubblico ministero senza la presenza del difensore; un avvocato che mentre dice di difenderti, in realtà ti tradisce.

Il processo si sposta sulla professione e, così, in un Paese dove, giustamente, è normale andare dallo psicoterapeuta, quest’ultimo giudica e condanna il suo stesso operato, affermando che “l’analisi è un non intervento” e che lo specialista viene “strapagato per ottenere poco o niente”. Ne esce fuori una professione indebolita da una visione stereotipata che si è trasferita al protagonista, ma che in realtà è propria dell’opinione pubblica più delusa.

Ancora viene rinviato a processo l’oggettività della morale, riproponendo come pretesto la questione dell’omosessualità, presentata alla luce di questa interessante prospettiva che confonde adattamento e aberrazione, come se l’amore non fosse amore (“love is love”).

Infine, il vero processo, celebrato tra le righe di un’accusa scritta a tavolino dal mondo non credente, che rinfaccia l’esplicito sentimento omofobo che ritroviamo nella bibbia, lì dove si legge che l’omosessualità è un abominio. Ad essere giudicato, in questo caso, è l’ateismo militante che, a nostro modo di vedere, ne esce perdente, dopo aver preteso che uno scienziato sfidasse la Parola di Dio. Qui la confusione è evidente, quando ancora una volta si cade nell’errore di voler contrapporre fede e ragione, invece di accostarsi alla Scrittura con sapienza: “la Bibbia è la Parola di Dio”, chiede l’accusatore; “La Bibbia è ispirata da Dio”, risponde l’accusato, aggiungendo che non ci si può limitare a leggere la Parola di Dio, ma si deve studiare e interpretare.

Alla fine, sembrerebbe che ad essere assolte dalla propria coscienza siano entrambe, la scienza e la fede. Il lavoro del terapeuta, infatti, non consiste “né nell’incriminare, né nell’assolvere, ma nel comprendere le condizioni mentali”. Mentre, “la malattia mentale è un disturbo dell’anima, una confessione di umiltà, un atto di amore verso noi stessi e verso quel dono che noi chiamiamo vita”. Diversamente non si spiegherebbe perché per perdonare bisogna battere in pazzia chi sembra aver compiuto un gesto di follia.

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